Il Ritorno della Bellezza

 

 

LORENZO L. BORGIA & MONICA LANFREDINI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 24 ottobre 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

È la percezione visiva di una realtà affascinante, di quelle che mutano lo stato d’animo e sembrano promettere anche solo per un’istante di cambiarci la vita, l’elemento di esperienza individuale che ha costituito il punto di partenza comune, più o meno consapevole, nei percorsi di studio e riflessione sulla bellezza che abbiamo seguito negli anni recenti. Al di là delle convinzioni di ciascuno e del differente approccio culturale, siamo stati accomunati dalle memorie di esperienze interiori che desideriamo rendere attuali. La necessità di vivere la dimensione della bellezza a supporto dell’adattamento psicologico alla realtà quotidiana, particolarmente avvertita in questo periodo di timori e restrizioni sociali, ha indotto i partecipanti al seminario permanente sull’Arte del Vivere a riportare questa tematica al centro dell’interesse comune.

Lo scopo non è più quello di conoscere l’argomento in tutti i suoi aspetti neuroscientifici, filosofici, psicologici, antropologici e letterari, e di conoscerci culturalmente attraverso l’esperienza del lavoro multidisciplinare, ma è quello di impiegare gli approdi condivisi per cercare, almeno un poco, e per la parte che la vita, le circostanze, le occorrenze e le nostre capacità ci consentono, di vivere di bellezza.

Non ripercorreremo il cammino di ricerca, speculativo e dialettico degli anni precedenti, ma ne implicheremo alcuni contenuti per quegli approdi condivisi che oggi consideriamo punti di partenza o vie della ragione per esercitare la pratica che ci prefiggiamo. Solo, si vuol ricordare il ruolo di “sapere di fondo o sfondo del pensiero” che hanno avuto per noi le neuroscienze, quale ancoraggio di realtà e logica, proteggendoci da divagazioni o derive speculative che non tengano conto del vincolo neurobiologico, ossia di quanto sappiamo per evidenza empirica.

L’antico dilemma fra soggettività ed oggettività del bello, ossia se la bellezza è negli occhi di chi la vede o è una proprietà assoluta, indipendente dall’osservatore, è in un certo senso risolto, sia pure per spostamento, dalla conoscenza neuroscientifica: la bellezza è nel cervello. Consiste precisamente in una reazione positiva e specifica all’elaborazione percettiva di particolari contenuti informativi. E può verificarsi tanto come risposta estesamente condivisa fra i percipienti, e per questo ritenuta oggettiva, quanto come reazione individuale non condivisa, e perciò apparentemente soggettiva. Un esempio del primo caso può essere un’alba che irradia colori spettacolari su un paesaggio da sogno, mentre un esempio del secondo caso può essere il piacere estetico provato da una persona per un viso ritenuto poco attraente dalla maggioranza degli altri osservatori.

Anche se non consente di fare passi in avanti di grande significatività ontologica, collocare l’origine dell’esperienza del bello in una risposta cerebrale che può tanto accomunarci quanto distinguerci dagli altri ha, se non altro, il merito di allontanare la tentazione di un manicheismo preconcetto verso la soggettività o l’oggettività della bellezza.

Per operatività pratica abbiamo assunto il riferimento comune alla concezione della bellezza più diffusa in psicologia sperimentale: un piacere mentale suscitato prevalentemente dalla percezione visiva o acustica e ben distinto da quello prodotto dall’attivazione di recettori cutanei e mucosi. È un po’ poco, se si pensa alle decine di suggestive e profonde definizioni di filosofi ed esteti di cui ci siamo occupati, ma è senz’altro un riferimento sufficiente ad evitare ambiguità con il piacere fisico ed è tanto di base da non implicare la scelta di una particolare concezione ideologica.

La questione nodale, per noi, è trovare condivisione, perché non basta la possibilità di contemplazione individuale, soprattutto se è limitata a immagini artificiali, ma è necessaria un’esperienza condivisa per determinare quell’attualità che renda attivo l’effetto del bello nella dimensione esistenziale. Si può cominciare dai membri della famiglia e, in generale, dai conviventi, e poi estenderlo a coloro che sono sensibili fra quanti, ad esempio, sono in contatto telematico con scambio di messaggi e immagini. Un nostro esercizio è consistito nel selezionare delle fotografie da scambiare – che qualcuno ha ingrandito e stampato in dimensioni da poster – eleggendone una, di volta in volta, per l’immersione comune: ciascuno ha fornito delle impressioni di getto o ha composto una breve storia che ha contribuito ad esaltare le qualità più attraenti dell’immagine. A questo scopo, oltre ad impiegare foto degli stessi soci, si sono adottate opere di fotografi di fama internazionale come Christine Kuppelwieser, presidente del Club di Fotografia di Salisburgo, ossia la più antica accademia fotografica d’Europa, e Denny Lehman, autore di magistrali e incantevoli riprese aeree di paesaggi e panorami mozzafiato per riviste come National Geographic e per il cinema.

A questo esercizio, basato principalmente sull’evocazione psicologica di uno stato mentale positivo, abbiamo associato numerosi altri esercizi basati sul concetto astratto di bellezza e concepiti da ciascuno secondo le proprie preferenze. Qualche neofita, che non ha seguito il lungo percorso da noi compiuto, piuttosto ingenuamente e anche provocatoriamente ci ha chiesto: “Perché per voi la bellezza è un valore?”.

Le risposte immediate sono state tutte di carattere scientifico e hanno spiegato che esiste una tendenza neurobiologica, che può essere dimostrata già in specie di primati meno evolute della nostra, consistente nel preferire cose belle e associare all’esperienza delle cose preferite uno stato funzionale cerebrale simile a quello degli affetti positivi. Una parte importante di questa reazione è mediata dalle strutture tronco-encefaliche a cui Gerald Edelman, seguendo la neurofisiologia evoluzionistica, ha dato il nome di “sistemi di valore”.

In altri termini, la visione del bello sarebbe associata a memorie primordiali di aspetti dell’ambiente favorevoli alla sopravvivenza dell’organismo, quali la luce del sole e la varietà dei colori, la prima associata a condizioni ottimali per l’equilibrio termico e la seconda all’abbondanza di cibo e, in alcune specie, alla presenza di potenziali partner[1].

Ma i neofiti, sottolineando come scontata la pacifica accettazione del valore biologico, hanno osservato che, considerata la storica tendenza delle culture umane a modificare le sensibilità, spesso andando contro le spinte biologiche, e la capacità di ciascuno di elaborare un proprio sistema di valori, avremmo dovuto rinunciare a considerare la bellezza un valore in senso culturale.

In effetti, la questione appare problematica, soprattutto se la si affronta seguendo tesi che si sono andate affermando nel corso del secolo terminato da venti anni.

Abbiamo visto che culturalmente, basti pensare all’arte del Novecento, il senso stesso della bellezza è mutevole e la sua concezione, quale espressione di un’armonia che genera piacere nella realtà naturale o in un’opera che la imita, è stata contestata come una vecchia e superata ideologia accademica. Si è sostenuto che l’arte non abbia bisogno della bellezza per esprimersi, oppure che bello non sia ciò che è stato ritenuto tale dall’antica Grecia all’Ottocento, ma il “nuovo” proposto da singoli artisti o movimenti artistici.

In altri termini, una parte considerevole della cultura ha detto che la bellezza intesa in senso tradizionale non è un valore, ma un disvalore da fuggire per chi realizza opere e da censurare per chi le giudica. In particolare, questa revisione ha avuto luogo in seno alla pittura e si è progressivamente affermata nel corso del secolo diventando, da ideologia delle avanguardie, vera cultura egemone, che condannava senza appello ogni lavoro basato su abilità di disegno, composizione e colore ispirato al vero, in un linguaggio figurativo o paesaggistico, bollandolo come “accademico” o di “genere”, fuori dell’arte e privo di valore[2].

Ma, a far presente che la bellezza fondata sulla percezione visiva di ciò che naturalmente si ammira è insopprimibile, ci hanno pensato la fotografia e il cinema: ciò che era stato bandito dall’arte figurativa come “accademico e superato” sembrava costituire il modello per l’espressione dell’arte in pellicola. E tale modello è rimasto ora che i mezzi di riproduzione tecnologica dell’immagine reale si affidano alla cifratura per la lettura elettronica[3]: il fascino del vero, mediato dalle descrizioni dei romanzi o accresciuto in tutti i suoi aspetti dall’arte cinematografica, è intramontabile perché appartiene alla nostra radice biologica.

Ai neofiti si è poi fatto notare che la concezione della bellezza astratta, da Platone ai giorni nostri, ha avuto una tradizione che, dal neoplatonismo dell’Accademia Fiorentina[4] alle tesi sviluppate nella narrativa di Dostoevskij, ha inciso tracce profonde nella nostra cultura contemporanea, che prescindono dall’avversione di molti critici d’arte per la bellezza naturale e accademica. Per i neofiti è difficile accettare che il loro riferimento ideale si possa considerare un’eccezione alla regola o addirittura un incidente di percorso in oltre duemila anni di storia, tanto quanto ammettere che alcuni dei loro riferimenti filosofici si erano limitati, come ebbe a dire Franco Rella, a fare del Partenone un ghetto e del ghetto un Partenone, o che l’estetica delle rovine di Baudrillard presenti una bellezza differente e non la sua negazione. Tuttavia, alla fine hanno accettato di riconsiderare le proprie posizioni alla luce di argomentazioni che, in sintesi, sono esposte in un articolo di Diane Richmond e Patrizio Perrella:

È innegabile che il concetto di bellezza, fin dall’antichità classica, sia stato legato alla forma, alla sua armonia, ad elementi percepiti dalla vista in grado di evocare piacere, preferenza, desiderio. Le radici psicologiche millenarie di questa concezione sono evidenti quando si pensi alla formula degli antichi Greci che spiegava in cosa consista il senso e il potere della bellezza: una promessa di felicità.

Una sintesi suggestiva, che può far pensare ad una persona alla quale si desidera legarsi o ad un luogo da sogno dove trascorrere la vita; ossia una concreta esperienza percettiva che si presta ad essere idealizzata. In fondo, anche il moderno concetto di belle arti appartiene a questa tradizione, sia nell’epoca della rigorosa imitazione della natura, sia in quella delle astrazioni estetiche, fino alla dissoluzione di canoni e paradigmi tradizionali nelle varie espressioni dell’arte contemporanea.

Nella storia non sono stati pochi i filosofi che hanno proposto l’esistenza di un senso profondo e universale della bellezza e dell’estetica, emancipato dall’esperienza diretta e particolare della percezione; si pensi, in epoca non lontana dalla nostra, alla concezione dell’estetica quale scienza filosofica della sensibilità, introdotta da Baumgarten, adottata da Kant e sviluppata nel pensiero dei due secoli successivi. Tuttavia, un tale modo di considerare l’esperienza del bello non ha creato opinione diffusa, così che la tesi sostenuta da vari matematici secondo cui la bellezza matematica non sarebbe diversa da quella musicale o figurativa, ha incontrato molte resistenze[5].

Si consiglia la lettura di questo articolo anche perché aiuta a comprendere le ragioni dell’astrazione del concetto di bellezza in rapporto alla matematica: un campo del sapere che rappresenta in un certo senso il polo mentale opposto alla materialità degli oggetti sensibili, e che si è abituati ad associare ai processi di calcolo e di misura.

Ma, comunque la si voglia intendere e si preferisca considerarla, la bellezza costituisce una realtà alla quale il cervello e la mente reagiscono in maniera positiva, secondo quanto confermato da evidenze certe e inconfutabili, che supportano la nostra pratica fondata sul tentativo di compiere un’immersione quotidiana nella dimensione del bello.

La forza e l’entusiasmo generati dall’esperienza della bellezza sono una parte della vita, riconosciuta e spesso celebrata dalla letteratura. Il poeta polacco Cyprian Norwid mette direttamente in rapporto questa energia con il lavoro: “La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere”[6].

È interessante questa prospettiva di consapevole e diretta finalizzazione della motivazione evocata dall’esperienza positiva in un’attività produttiva che genera senso; infatti, attingendo alla bellezza energia da impiegare nel lavoro, si sviluppa uno stile di attività psichica che può contribuire sia alla prevenzione che al trattamento di disturbi depressivi. Ma quest’uso psicologico, comune fra noi, è in generale poco conosciuto. Rimane oggi per molti la difficoltà di concepire la categoria del bello come dimensione della realtà, per la perdita di una sua rappresentazione culturale riconosciuta e trasmessa, che ha per diretta conseguenza l’incapacità di molti di considerare la bellezza allo stato puro, come abbiamo avuto modo di osservare:

“La progressiva distruzione del valore socialmente condiviso della bellezza ha varie cause e ragioni; una di queste ci sembra di poterla individuare nel costante uso del bello come mezzo per un fine diverso e, in genere, meno nobile della disinteressata contemplazione. L’opera d’arte, così come la bellezza naturale, possono essere guardate con atteggiamento puro, ossia senza la strumentalità di un altro interesse, quale quello di comprare e rivendere l’opera per trarne profitto, o progettare lo sfruttamento commerciale della bellezza naturale. Tale atteggiamento puro è sempre più raro da osservarsi e non è più insegnato quale valore e possibilità di esercizio del senso estetico. Al contrario, si assiste quasi esclusivamente all’impiego dell’immagine o dell’aspetto attraente per il fine commerciale della pubblicità o lo scopo della seduzione: il bello relegato a mezzo di adescamento è la regola, così che la coscienza sociale del suo valore di nutrimento psichico si indebolisce sempre di più”[7]. Per questo diffuso difetto culturale si rimane estranei alla concezione di Goethe: “…la maggior parte delle persone oggi non comprende realmente cosa volesse dire l’autore del Werther con «le massime gioie della natura e dell’arte», perché non è più capace di quello sguardo puro che genera gioia[8].

Una sintesi estrema del rapporto fra essere e bellezza dal mondo greco a quello cristiano può aiutare a comprendere l’inedita realtà del presente:

“La cultura medioevale, elaborando la concezione greca dell’essere alla luce della tradizione giudaico-cristiana, lo qualifica come unum, verum et bonum. Poi, lo studio di pensatori oggi semisconosciuti, quali Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, autore di una teologia negativa, e di autori fondamentali nel pensiero filosofico cristiano, come Sant’Agostino, portò due celebri francescani, ossia San Bonaventura ed Alessandro di Hales, ad aggiungere un altro tratto distintivo, concepito quale carattere trascendentale: pulcrum, ossia bello. Uno sviluppo che non sorprende se si considera che già San Francesco vedeva “nel bello delle creature il Bellissimo”. Nasce, dunque, in seno a questa cultura, il concetto di bellezza quale attributo dell’essere.

Non molti sanno da chi e dove fu scritta la frase la bellezza salverà il mondo, che ispirò anche Giovanni Paolo II: Fёdor Dostoevskij la vergò nel manoscritto de L’Idiota a Firenze, nella sua casa di Piazza Pitti, dove visse durante la creazione di quel capolavoro della letteratura. La città della bellezza artistica fu scelta dal grande romanziere russo proprio per la sua sensibilità estetica, che lo portava anche a far visita almeno una volta l’anno alla Madonna Sistina di Raffaello, presso la quale rimaneva a lungo in contemplazione. Oggi possiamo interpretare questa esperienza ripetuta come un esercizio efficace nell’adattamento psicologico o, come si è soliti dire, quale autoterapia.

Il tema della “bellezza che salva” è ripreso da Dostoevskij ne I Fratelli Karamazov: Ipolit, un ateo, chiede al principe Mynski: “In che modo la bellezza salverebbe il mondo?”. Il principe non risponde a parole, ma con un’azione eloquente: si reca da un giovane diciottenne agonizzante, e rimane ad assisterlo fino alla morte.

La bellezza quale dimensione di senso dell’esistenza è stata recentemente ripresa da Anselm Grun (Bellezza: una nuova spiritualità della gioia di vivere. Vier Turne Verlag, 2014) che spiega come per Dostoevskij la bellezza sia dimensione etica e spirituale, più che estetica, in quanto originata da Cristo stesso, quale “Seminatore di bellezza” nell’animo umano.

Molte resistenze verso questa prospettiva cristiana, non limitate agli ambienti in cui è prevalente la cultura scientifica, negli ultimi decenni hanno caratterizzato una sorta di rimozione collettiva di questa parte della storia del pensiero e della sua influenza plurisecolare sulla sensibilità umana ed artistica. L’accantonamento, che ha visto quasi la scomparsa nel Novecento di ogni materiale documentario di questa concezione del bello dal novero degli oggetti di studio e degli strumenti per la didattica scolastica e universitaria, non ci appare oggi giustificato. Al contrario, il suo approfondimento nel confronto con la concezione platonica e in contrapposizione con i numerosi e polimorfi orientamenti attuali, ci sembra possa costituire un’utile fonte di conoscenza”[9].

Esattamente due anni fa ci siamo posti un problema, qui reso con due interrogativi:

Stabilire, creare, rinnovare o ripensare il proprio rapporto con la bellezza, può davvero sviluppare un’antica radice antropologica in un nuovo fertile terreno psicologico? In altre parole, studiare la concezione della bellezza dall’antichità classica all’era moderna, comprenderne i valori di essenza e renderli parte della propria vita può divenire processo psichico di adattamento psicologico alla realtà e contribuire al miglioramento della salute psichica individuale e della sensibilità culturale collettiva?[10].

L’esperienza maturata in questi anni ci suggerisce una risposta positiva, vincolata ad un attivo e costante intervento sulla realtà che ci circonda. Se si rimane passivi si finisce, senza accorgersene, per rimanere immersi nel prevalente e diffuso degrado culturale intriso di un’ordinaria brutalità rozza e incivile che, cancellando la sensibilità, uccide ogni bellezza.

 

Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia & Monica Lanfredini

BM&L-24 ottobre 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] In alcune speculazioni evoluzionistiche classiche si facevano notare i numerosi aspetti della vita animale nell’ambiente naturale che hanno radicato la percezione della luce solare quale valore: oltre alla già ricordata azione positiva sulla termoregolazione, la luce di un cielo sereno si associa all’ottimizzazione della percezione visiva e delle azioni da questa più strettamente dipendenti, ad assenza di perturbazioni atmosferiche che possono minacciare l’integrità dell’organismo. La luce rivela i caratteri della forma e consente la discriminazione dei colori, importante in molte specie animali per l’alimentazione e l’accoppiamento; si associa a stabilità, ordine e armonia, tanto quanto vento e temporali si associano instabilità, disordine e disarmonia. La risposta molecolare dell’organismo alla luce e la fisiologia delle varie classi di cellule fotosensibili possono completare il quadro.

[2] L’opinione della maggior parte dei partecipanti al seminario è che il “nuovo” come valore si sarebbe potuto porre accanto al valore del “bello” naturale di un volto, di un corpo o di un paesaggio, senza arrivare all’aut-aut della mutua esclusione dalla possibilità di costituire valore per l’arte. Ma prevalse la spinta conflittuale e il desiderio di annientamento dell’avversario per la conquista assoluta di quel regno della cultura. Fu una vittoria di Pirro per i distruttori dell’accademia, perché il ruolo di depositari del valore nell’arte passò dagli artisti a un’oligarchia di critici d’arte che, alleati col potere finanziario del mercato, acquisirono un ruolo straordinario: impiegavano la deriva sottoculturale del valore dell’inconscio nella produzione artistica per eleggersi a ermeneuti delle opere, riducendo l’artista a un incapace di intendere sé stesso e la propria arte: un minus habens che, se faceva qualcosa di buono, lo faceva inconsapevolmente.

[3] Tale è il modo corretto di indicare in italiano il “digitale”, erronea traduzione a orecchio della parola inglese digital che vuol dire “cifrato”, da digit, che significa “cifra”.

[4] Si ricorda che Benedetto Varchi, presidente dell’Accademia che pronunciò il discorso commemorativo in morte di Michelangelo Buonarroti, fornì una parte considerevole dei contenuti tematici per la figurazione della Cappella Sistina, che, nel loro contenuto simbolico, rimandano ai valori di bellezza astratta espressi dalla fede.

[5] Note e Notizie 08-11-14 La bellezza della matematica nel cervello.

[6] Cyprian Norwid, Promethidion: Bogumi, vol. 2, p. 216, vv. 185-186, Pisma Wybrane (Scritti Scelti), Varsavia 1968.

[7] Note e Notizie 29-09-18 Notule: Atteggiamento puro e contemplazione della bellezza. In questa notula si prendono le mosse da osservazioni di Socrate nel Fedro di Platone: la ricerca nel mondo materiale della bellezza deriva dal ricordo di quella vera e irraggiungibile esperita dall’anima nei cieli; tale ricerca eleva, soddisfa e rasserena se la contemplazione si preserva pura e non cade nella passione sensuale.

[8] Note e Notizie 06-10-18 Notule: La posizione di Goethe come possibilità nel separare la bellezza dal possesso.

[9] Note e Notizie 13-10-18 Notule: Il potere della bellezza concepita non come qualità percettiva della forma, ma quale dimensione dell’essere.

[10] Note e Notizie 13-10-18 Notule: Il potere della bellezza concepita non come qualità percettiva della forma, ma quale dimensione dell’essere.